domenica 8 febbraio 2015

Seven (Se7en, 1995) di David Fincher

Uno spietato serial killer uccide in modo efferato, secondo un macabro schema collegato ai sette peccati capitali: gola, avarizia, accidia, lussuria, superbia, invidia, ira, in modo che ogni vittima sia un degno emblema, da punire con la morte, di quel vizio. Una coppia di detective, Sommerset, esperto e disincantato, e Mills, giovane e irritabile, ne decodificano il raccapricciante disegno e cercano di anticiparne le mosse in una disperata lotta contro il tempo. Ma l’omicida è molto abile ed ha in serbo un colpo a sorpresa per portare a termine il suo folle piano moralizzatore. Da David Fincher, che con questo film ha rivelato al mondo il suo grande talento, un formidabile thriller geometrico, angosciante, spietato, preciso nei suoi diabolici meccanismi, come il piano ordito dalla mente dell’assassino, spaventoso ma geniale nella sua rigorosa lucidità. Con una messa in scena torbida, una fotografia allucinata, già nei folgoranti titoli di testa, che presto diventeranno un marchio di fabbrica dell’autore, e delle ambientazioni opprimenti, la cupa metropoli americana senza nome perennemente umida e piovosa, Fincher ci regala il thriller degli anni ’90, divenuto immediatamente di culto e di enorme successo, insuperabile per l’angosciante connotazione violenta, modellata sulla personalità malata, ma, a suo modo, affascinante, del killer, che è il protagonista assoluto della vicenda: nella prima parte incombente minaccia nascosta nell’ombra e nella seconda diabolico demiurgo di un sottile rituale di morte. Il cast stellare, Brad Pitt, Morgan Freeman, Kevin Spacey, Gwyneth Paltrow, è eccellente nel porsi al servizio dell’oscura vicenda, che ci regala brividi in quantità, scene di grande impatto horror ed un finale memorabile, tra i più potenti, beffardi e riusciti “twist” del cinema moderno. Pitt e Freeman interagiscono alla perfezione, mettendo in scena una rinnovata versione dell’antica dicotomia allievo-maestro, ed innervandola di metodico fatalismo, il vecchio Sommerset, e di furente insofferenza, il giovane Mills. L’evidente inverosimiglianza di molte situazioni viene riscattata dalla dimensione ipnotica dell’opera, una sorta di incubo oscuro dai tratti alienanti, che mantiene un patos costante anche per mezzo di un montaggio prodigioso, ad ulteriore conferma di una confezione tecnica straordinaria ed assolutamente inusuale per il genere thriller. Lo straniamento indotto dalla mancanza di riferimenti certi, sia temporali che geografici, conferisce alla pellicola l’ambiguità tetra di una sinistra metafora, una parabola nera sulla malvagità umana, le cui deliranti suggestioni “religiose” rappresentano il cuore perverso, il supremo anatema di malia apocalittica. E’ da non perdere e da vedere “al buio”, ovvero sapendo il meno possibile della trama.

Voto:
voto: 4/5

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