mercoledì 19 luglio 2017

A Single Man (A Single Man, 2009) di Tom Ford

Los Angeles, 1962, durante la grave crisi politica dei missili sovietici a Cuba, che fece sentire il mondo intero sull'orlo di una imminente guerra nucleare. George Falconer, distinto professore universitario inglese, omosessuale e di mezza età, è disperato per la tragica morte del suo amato compagno Jim e vive angosciato in una profonda solitudine, prigioniero dei ricordi del passato. Mentre medita di darsi la morte con un colpo di rivoltella, il nostro troverà momentaneo conforto in una cara amica di vecchia data (innamorata di lui) e in un giovane studente, anch'egli con tendenze gay, che non nasconde un'evidente attrazione nei suoi confronti. L'esordio registico dello stilista Tom Ford, che adatta il romanzo "Un uomo solo" di Christopher Isherwood, è un elegantissimo melodramma sincopato, destrutturato nella narrazione e delicatamente pudico nell'esibizione dei sentimenti. Nella riflessione su due concetti reciprocamente indissolubili come amore e vita, l'autore (che ha scritto anche la sceneggiatura insieme a David Scearce) ci immerge nel dolente quotidiano di un uomo solo e silenzioso, intimamente stroncato da una grave perdita affettiva, in balia di una triste inerzia esistenziale che lo sospinge verso l'appuntamento fatale con la dama in nero. Attraverso l'inquadratura costantemente minuziosa dei dettagli (cravatte, scarpe, vestiti, una sciarpa di flanella vecchio stile, fotografie, labbra di donna, lettere, dischi, libri) il regista "pedina" con discrezione il suo protagonista e utilizza gli oggetti stessi come simboli pregnanti, capaci di raccontare una storia, evocare un ricordo, suggerire un'emozione, provocare un palpito o acuire il dolore dell'anima. La decadenza autodistruttiva di un uomo in disfacimento viene messa in sottile connessione metaforica con quella di una società condotta in prossimità del baratro dalle fallimentari politiche internazionali che hanno generato la così detta "guerra fredda". L'andamento ondivago tra presente e passato, con i  flashback intervallati all'attualità, viene rimarcato da stili visivi diversi, con la fotografia che modifica continuamente la saturazione dei colori in base alle emozioni provate da George. La patina glamour è indubbiamente presente, così come un certo manierismo effettistico figlio della volontà di mettersi in mostra, ma è indubbio che il film ha stile, classe, eleganza ed un approccio dal taglio coraggioso che lo rende ampiamente sopra la media e fieramente anti-hollywoodiano. Con uno sguardo algido che intende sottolineare il distacco di un uomo ebbro di vita, caduto ormai in una serena alienazione rispetto alla realtà nell'attesa della fine, il regista governa con personalità la materia filmica, affidandosi alle straordinarie interpretazioni di un cast ispiratissimo, in cui svettano un memorabile Colin Firth (candidato all'Oscar come miglior protagonista e premiato con la prestigiosa Coppa Volpi alla 66° Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia), capace di suggerire le emozioni lavorando per sottrazione, quasi bisbigliandole attraverso suoni, gesti o sguardi, ed una intensa Julianne Moore, attrice di innegabile carisma che sa accordarsi con raffinata grazia al tono sommesso del film. Splendida anche l'avvolgente colonna sonora evocativa composta da Shigeru Umebayashi e Abel Korzeniowski, un valore aggiunto in un esordio cinematografico sorprendente, che ha riscosso la quasi unanimità di consensi da parte della critica internazionale.

Voto:
voto: 4/5

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